Analisi e costruzione di modelli innovativi per la programmazione di politiche |
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Contro la marginalità e la dispersione, per l’integrazione scolastica e socialeLa marginalità scolastica, caratterizzata dall’insuccesso e dalla dispersione, è strettamente connessa con la marginalità sociale. Manifestandosi soprattutto nella scuola dell’obbligo, e perciò anche nei primi anni della scuola secondaria, questo fenomeno, significativamente legato al contesto socio-familiare di provenienza, si presenta dunque con i caratteri di una selezione sociale da parte dell’istituzione scolastica. All’insuccesso individuale si accompagna, troppo spesso dimenticato, l’insuccesso della scuola. L’età giovanile, nella sua naturale complessità, diviene effetto e causa della frammentazione dell’identità individuale e culturale che vive e riproduce. Adeguatamente osservata, consente anche di indagare su come i valori o la percezione degli stessi sia cambiata tanto nella sfera giovanile quanto in quella degli adulti. Modificazioni di norme e regole, di modelli e referenti etici sono dati di mutamento socio-culturale fisiologico ma, nella società complessa e multietnica, richiedono analisi dettagliate e in profondità. Queste “confusioni” sono spesso all’origine di quello che viene comunemente definito “disagio giovanile”. Uno dei sintomi più evidenti di tale difficoltà si esprime nella dispersione scolastica, la quale evidenzia la problematica generale che ogni istituzione incontra nel gestire e contenere le diverse forme di disagio, creando spesso nel giovane, che non si senta “riconosciuto”, una sorta di diffidenza verso le istituzioni stesse. Occorre perciò mettere in campo azioni di sistema che, privilegiando la ricerca intervento, e per ciò stesso il protagonismo dei giovani, implementino in progress la conoscenza dell’universo formato dai giovani che hanno abbandonato la scuola, nelle specifiche realtà territoriali. Tale azione dovrebbe consentire, nel contempo, di sperimentare azioni ed interventi mirati a ridurre il numero dei ragazzi privi di titolo di studio o con percorsi di istruzione e formativi insufficienti/inadeguati/ incompiuti. Mettere la qualità dell’istruzione e della formazione al centro delle politiche pubbliche, valorizzandone i punti di forza e superando i ritardi, è considerata una strategia decisiva per la ripresa della crescita della produttività e della mobilità sociale del Paese, dei processi di integrazione e coesione sociale. Sul piano comunitario, l’UE intende far fronte, come si è già ricordato, alle sfide poste dalla globalizzazione rafforzando la competitività dell’economia europea. Nell’esercizio finanziario 2007-2013 i Fondi strutturali dell’UE investiranno maggiormente nella formazione, nell’innovazione e nella ricerca, considerando la necessità della profonda modernizzazione dell’economia del vecchio continente perché sia in grado di competere con l’area del dollaro e quella fino a qualche tempo fa riconosciuta come dello yen, ora decisamente rimessa in discussione dall’emergente asse India/Cina, ma comunque disegnata sull’enorme potenziale dei mercati asiatici. Da Lisbona, nel marzo 2000, il Consiglio europeo ha conferito all’Unione il nuovo ambizioso obiettivo di realizzare una società che sappia in progress costruire percorsi di crescita e di sviluppo capitalizzando senza soluzioni di continuità il valore della conoscenza e rigenerando l’organizzazione sociale sul parametro della sussidiarietà e della cittadinanza attiva. Nella società della conoscenza, vale ricordarlo, è essenziale che ciascun cittadino sappia:
Per conseguire i cinque obiettivi del Libro bianco sulla società cognitiva, posti a carico dei singoli stati, e rendere praticabili le proposte concrete di azione:
Per meglio comprendere l’insopportabilità, in tale prospettiva, dei fenomeni di dispersione/mortalità nei percorsi di istruzione formazione che ha invece valenza strategica di percorsi di riposizionamento ogniqualvolta le storie personali lo richiedano, basti pensare alla prospettiva del lifelong learning (‘istruzione e formazione lungo tutto l’arco della vita’) come delineata per l’Italia dalla Commissione Europea5, per un sistema educativo esteso e per conseguire l’obiettivo di “non uno di meno” degli attori di quella che può definirsi una vera e propria rivoluzione copernicana nella politica dell’accesso e della messa a frutto dell’istruzione/formazione come investimento personale e sociale. È utile riportare la valutazione, sempre dell’Europa, sulla strada che dovrebbe condurre agli obiettivi di Lisbona entro il 2010: il riferimento è al documento LE CIFRE CHIAVE DELL’ISTRUZIONE IN EUROPA 2005 (Commissione Europea, Lussemburgo 2005)6. Non va sottaciuto inoltre che già nel 2003 fu pubblicata dalla Commissione Europea una COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE «ISTRUZIONE & FORMAZIONE 2010» L’URGENZA DELLE RIFORME PER LA RIUSCITA DELLA STRATEGIA DI LISBONA7 nella quale veniva denunciato che “I cinque livelli di riferimento europeo (benchmark) adottati dal Consiglio (Istruzione) nel maggio 2003 [sopra ricordati] saranno in gran parte difficili da raggiungere entro il 2010. In particolare, la partecipazione dei cittadini europei all’istruzione e alla formazione permanente rimane debole e l’abbandono scolastico e l’esclusione sociale, dagli elevati costi personali, sociali ed economici, rimangono troppo grandi. Inoltre non vi è nessun segno di un aumento sostanziale degli investimenti complessivi (pubblici e privati) nelle risorse umane.” Altro documento significativo sullo stato dell’arte è la valutazione dell’OCSE secondo la quale [5] “su 15 dei 17 Paesi dell’OCSE con dati comparabili disponibili, la percentuale di diplomati della scuola secondaria del secondo ciclo in età di conseguire il diploma supera il 70 per cento. In Danimarca, Finlandia, Germania, Giappone e Polonia la percentuale di diplomati supera il 90 per cento. La sfida attuale è impegnarsi a far sì che la porzione restante non venga lasciata in disparte, con il rischio di rimanere socialmente esclusa” ed ancora “in media, nei Paesi dell’OCSE, il 30 per cento delle persone in età di conseguire la laurea terminano gli studi terziari di tipo A – ma la percentuale varia da circa il 40 per cento in Australia, Finlandia, Islanda e Nuova Zelanda al 20 per cento o meno in Austria, Repubblica Ceca, Germania, Italia e Svizzera”. Inoltre, pur limitando ad una semplice elencazione le considerazioni che seguono, si ritiene utile una riflessione sul quadro d’assieme che esse contribuiscono a delineare:
Un altro significativo contributo è reso dall’Associazione TREELLE9, la quale nel quaderno n. 3 del 2003 rileva come la condizione strutturale produca ulteriori handicap nel quadro del sistema dell’istruzione superiore e universitaria: A questa espansione non è stata data risposta adeguata, in quanto fino agli anni ’90 i progetti di riforma strutturale del sistema terziario (università e formazione tecnica superiore) si sono infranti contro il muro delle convergenti resistenze politiche ed accademiche (tanto dei docenti, quanto degli studenti). Ciò ha prodotto il progressivo aggravamento delle situazioni di criticità, tramutatesi in vere e proprie patologie del sistema: La complessità e l’urgenza di interventi che rimuovano le cause condizionanti rispetto alla strategia generale sono valse al lancio, da parte dell’OCSE, di un progetto specifico il PISA10 (Programme for International Student Assessment) un’indagine internazionale che mira ad accertare con periodicità triennale conoscenze e capacità dei quindicenni scolarizzati dei principali Paesi industrializzati. In Italia il progetto è a cura del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca - Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione (INValSI), che per il 2006 ha avviato la terza fase. OCSE-PISA 2006: ProgettoPISA 2006 è la terza fase di PISA (Programme for International Student Assessment), di cui condivide gli obiettivi fondamentali Che cosa è PISA. La principale domanda di ricerca cui PISA 2006 intende rispondere, in una dimensione comparativa, è la seguente: ‘’Come cittadini, che cosa è importante conoscere, apprezzare ed essere in grado di fare in situazioni che richiedono un riferimento alla scienza e alla tecnologia?’’. Il concetto che è alla base di PISA 2006 è quello di ‘’scientific literacy’’ (‘’competenza scientifica funzionale’’), che si riferisce non soltanto al possesso di specifiche conoscenze scientifiche, ma anche alla capacità di utilizzare in modo funzionale tali conoscenze in contesti di vita rea23 le. Più in particolare, il concetto di ‘’competenza scientifica funzionale’’ comprende: Come nelle due precedenti fasi di PISA, la popolazione oggetto di indagine è quella degli studenti quindicenni. La rilevazione utilizzerà tre strumenti. PISA 2006 ha come oggetto principale di studio la competenza scientifica funzionale degli studenti quindicenni. Verranno somministrati agli studenti del campione anche quesiti relativi alle competenze funzionali di lettura e di matematica già utilizzati nelle due precedenti fasi di PISA 2000 e di PISA 2003 L’analisi delle risposte degli studenti a tali quesiti consentirà non soltanto di stabilire possibili relazioni tra le diverse competenze indagate, ma anche di individuare le eventuali differenze nelle prestazioni degli studenti in una dimensione diacronica. PISA 2006 prevede anche alcune opzioni internazionali: L’Italia partecipa alle opzioni internazionali sulle TIC e sui comportamenti genitoriali. Sono previste anche opzioni nazionali. Partecipano a PISA 2006 i seguenti paesi: Argentina, Australia, Austria, Azerbaijan, Belgio, Brasile, Bulgaria, Canada, Cile, Cina-Hong Kong, Cina-Macao, Cina-Taipei, Colombia, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Giordania , Grecia, Kazakistan, Kyrghizistan, Indonesia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Portogallo, Qatar, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Coreana, Repubblica Slovacca, Romania, Russia, Serbia- Montenegro, Slovenia, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Tailandia, Tunisia, Turchia, Ungheria, Uruguay. Pare del tutto evidente, per quanto osservato, che tende ad intervenire sotto il profili quanti-qualitativo per dare esito all’obiettivo strategico condiviso, che si lega alle potenzialità territoriali ed all’investimento in saperi che fonda e sostanzia la strategia di Lisbona. La situazione in Italia presenta aree di indubbia problematicità, in ordine a: 2003. [Fonte: OCSE-PISA] INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e di Formazione) ha pubblicato uno studio nel quale è affrontata la questione del ‘malessere’ di una condizione esistenziale nella quale invece dovrebbe prevalere la voglia di progettualità positiva.11 Il volume illustra l’indagine avviata nel 2003, con la finalità di comprendere meglio e più a fondo il fenomeno del disagio giovanile (youth uneasiness), che include la problematica della dispersione scolastica (drop out), intesa come perdita di popolazione scolastica e come percentuale di studenti a rischio che si attestano ai livelli minimi di apprendimento (dispersione sommersa). Il progetto, coerente con la mission del Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione, era orientato allo “studio delle cause dell’insuccesso e della dispersione scolastica con riferimento al contesto sociale e alla tipologia dell’offerta formativa” (art.3 d del DLgs 19 novembre 2004 n. 286 istitutivo di INVALSI). Disagio giovanile e dispersione scolastica, come già accennato, quale fenomeno più ampio di disagio socio-culturale, correlato alla complessità della società contemporanea, alle trasformazioni in campo educativo, alle dinamiche del mondo giovanile, ai processi di interazione tra scuola, famiglia e contesto socio-culturale. La concorrenza di tali fattori può incidere in maniera negativa sulla qualità dei processi di insegnamento e di apprendimento e, di conseguenza, sul raggiungimento del successo scolastico e formativo. Il fenomeno del disagio include la problematica della dispersione scolastica, intesa sia come abbandono sia come percentuale di studenti con esiti scolastici che si attestano ai livelli minimi. Se la dispersione, come abbandono del percorso formativo da parte di un numero ancora molto, troppo, elevato di giovani, è un fenomeno misurabile anche in termini di ripetenze e di ritardi, c’è un altro aspetto più difficile da valutare quantitativamente, connesso ai recuperi mancati e alle forme di ri-orientamento a scalare; si tratta di un’area della dispersione ancora sommersa che necessita di continue riletture e di strumenti specifici e aggiornati di rilevazione. Anche nella prospettiva di questa nostra indagine si è voluto osservare, insieme alla raccolta di dati oggettivi, la percezione del fenomeno degli insuccessi e di quanto sottosta alla mancata pienezza degli obiettivi qualitativi dei percorsi di istruzione e formazione, al di là di indicatori e descrittori di per sé inadeguati a descrivere il clima generale. Si è voluto, altresì, investire sull’osservazione del sistema integrato di relazioni, che costituiscono l’universo dell’istituzione scolastica cercando di cogliere le cause sottese al fenomeno dell’insuccesso da dispersione/mortalità sul territorio preso in esame, e approfondendo almeno nelle grandi linee questioni come la continuità, l’orientamento al progetto, la motivazione, la didattica, i rapporti tra scuola e famiglia, tra scuola e territorio. Tutto ciò allo scopo di ipotizzare indicatori utili per la descrizione del fenomeno ed avviare una fase di riprogettazione su misura di comunità, nell’osservazione del malessere a scuola e nei percorsi di formazione, che pure, non di rado, riescono a recuperare le condizioni soggettive delle persone in difficoltà riportandole ad un parametro di praticabilità e di re-integrazione/ riprogettazione di vita. In merito a tale quadro problematico, si ritiene utile riportare un tentativo di possibile interpretazione del fenomeno, fondato su categorie e descrittori sul dropping-out, difficolta’ scolastiche e contesto socio-culturale: ipotesi di strategie di intervento per l‘integrazione, coordinate entro le quali si è mossa la ricerca. A partire da un’analisi di contesto a grandi linee, che caratterizza un area sia con decise caratteristiche di discontinuità rispetto alla condizione di marginalità strutturale tipica del mezzogiorno sia con elementi di ancoraggio alle persistenti difficoltà di trovare il passo per una cultura diffusa e consapevole di investimento sui saperi. La dispersione richiede alcune chiavi di lettura, poiché evoca scenari di perdita, frantumazione dell’orientamento, un fenomeno complesso che esprime una ‘costellazione’ di fenomeni, attraverso i quali, pur non assolutizzando le pratiche definitorie, è possibile delineare alcune tipologie e, di conseguenza, mettere in campo chiavi interpretative e operative. Ci troviamo dinanzi a situazioni nelle quali gli allievi ‘soffrono’ di un vero e proprio stigma: Sulla questione sostanziale del disagio, c’è un imprescindibile riferimento con cui fare i conti, di stretta derivazione dalle direttive comunitarie e dalle vision del problema che impongono coerenti azioni positive da parte dei governi nazionali13: l’indagine realizzata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, mediante tre distinte azioni di ricerca: Condurre una vita lunga e sana, essere istruito, avere accesso alle risorse necessarie per uno standard di vita dignitoso, prendere parte alla vita della comunità: queste possono essere identificate come le categorie che esprimono il benessere di un soggetto. E quindi queste dovrebbero essere le idee alla base di un qualsivoglia modello di sviluppo umano, una categoria ben più complicata e difficile da determinare - specialmente a livello statistico - di un semplice quantum economico. Ciò non di meno, è l’unica via per evitare la mera sovrapposizione tra il PIL pro capite di una nazione e il livello di benessere dei suoi cittadini, scartando, in una vision meramente produttivistica e di mercato, le motivazioni profonde, gli universi simbolici, la cifra ‘culturale’ di una comunità e dei singoli individui che la compongono. L’urgenza è quella di concentrarsi più nettamente sul benessere umano piuttosto che – o soltanto – sul reddito, che costituisce poi un obiettivo di autonomia, di inclusione sociale, di esercizio della cittadinanza. “Le persone sono la vera ricchezza delle nazioni. Infatti, lo scopo fondamentale dello sviluppo è quello di espandere le libertà umane (…). E le persone sono sia i beneficiari di tale sviluppo, sia i rappresentanti del progresso e del cambiamento che esso comporta”. Se nel rapporto UNDP l’oggetto indagato è lo sviluppo umano – categoria “positiva”, progressiva, che riguarda tutti i membri di una nazione – per noi l’oggetto da indagare è il disagio adolescenziale – categoria “negativa”, peggiorativa, e che riguarda una fascia soltanto della popolazione nazionale. Se lo sviluppo può essere assimilato a livello individuale con il benessere, così il disagio ci rinvia al malessere. Nella prassi statistica più recente, per valutare il benessere si considerano anche gli indici di malessere e viceversa. Il concetto di disagio su cui le politiche giovanili tendono a lavorare non rimanda ad una condizione precisa o all’assunzione di comportamenti “devianti”, pur a volte includendoli, ma identifica un insieme di condizioni e condotte che implicano forme di malessere socio-psicologico, comportamenti che pregiudicano la piena realizzazione delle condizioni del minore, situazioni di marginalità sociale e culturale, condotte francamente devianti. Ne consegue che la costruzione di una mappa del disagio deve fondarsi sulla raccolta di dati diversi che rendano la multidimensionalità del fenomeno, che non può non essere considerato alla base dell’abbandono di percorsi comunque formalizzati in vista dell’acquisizione di talune garanzie per il benessere. La realizzabilità e applicabilità di un approccio multidimensionale al disagio sono principalmente legate alla disponibilità, in buona misura, di dati aggiornati in progress. Sempre nel rapporto del PLPS, alle origini del disagio si individuano alcuni fattori di rischio: È riconosciuto che nella realtà italiana, con particolare evidenza negli ultimi decenni, la scuola è stata investita da processi di trasformazione, che hanno interessato sia gli assetti organizzativi e gestionali, sia la strutturazione e i contenuti dei percorsi formativi, sia il rapporto con il territorio. L’istituzione scolastica sempre più è stata chiamata ad assolvere una serie di funzioni che sono di sostegno allo sviluppo psico-affettivo e relazionale del bambino e dell’adolescente, e nello stesso tempo sempre più ad assumere un preciso rilievo sociale, di agenzia preposta alla formazione dell’individuo oltre che alla sua istruzione. Per quanto non si possa escludere a priori la valenza formativa di altri percorsi di vita che presuppongono una precoce uscita dalle linee tracciate dell’istruzione e della formazione istituzionali, la garanzia offerta dalla scuola come spazio transizionale, di mediazione tra quello protetto della famiglia e quello del lavoro, rappresenta tuttora la massima tutela che la nostra organizzazione sociale è in grado di offrire ai giovani bisognosi di consolidare la propria identità. E questo risulta essere determinato tanto dalla collocazione oggettiva del contesto scolastico, posto “a cavallo” tra la famiglia e la restante società, quanto dalla vocazione soggettiva della scuola, sostenuta sempre più chiaramente dalle norme che regolano la materia, come agenzia per la promozione del benessere. Va certamente riconosciuto che la scuola ha ormai perso il ruolo di unica agenzia formativa, con il risultato che l’abbandono scolastico, soprattutto con l’istituzione del diritto/dovere alla formazione fino al compimento del diciottesimo anno d’età, non equivale più all’uscita dal mondo dell’istruzione/ formazione, perché altre agenzie formative – regionali, provinciali, comunali – possono intervenire con vantaggio e successo degli adolescenti. Certamente, però, l’uscita da un percorso scolastico regolare, che porti al conseguimento di un diploma, mette i giovani in una condizione meno favorevole rispetto ad una futura ipotesi di impiego, perché condiziona fortemente le possibilità di inserimento principalmente ad ambiti professionali medio-bassi che, pur potendo consentire prospettive economiche interessanti, ne limitano il livello culturale e, in parte, socio-ambientale. È quindi, nella nostra realtà, il primo ambito di socializzazione extrafamiliare, assolvendo una fondamentale funzione nell’inserimento del minore nell’ambiente sociale e nell’acquisizione dei codici comportamentali ed etici propri del contesto socio-culturale di appartenenza. Anche a livello legislativo e ministeriale, questa recente modificazione è evidente. Per portare alcuni esempi, possiamo citare la legge 162 del 1990, attraverso la quale viene istituito il “Fondo nazionale per la lotta alla droga”, e che fa nascere presso le scuole secondarie i Centri di Informazione e Consulenza per gli adolescenti (CIC) oltre alla figura dell’insegnante referente. Nell’anno seguente, la legge 216, riguardante la lotta alla criminalità minorile, investe anche la scuola di compiti di contrasto della devianza e di prevenzione del disagio giovanile. Con la legge n. 285 “Promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” si passa da un’ottica di prevenzione – e quindi di tipo medico, che individua una singola patologia (droga, criminalità, …) della quale ridurre la diffusione – a quella della promozione delle condizioni sociali favorenti il benessere dei minori. La diffusione dell’approccio “di rete”, attraverso la previsione di “Piani territoriali di intervento”, riunisce operativamente i diversi attori istituzionali: scuola, enti locali, Asl, terzo settore. L’iter legislativo esemplifica bene il cambiamento e l’articolazione della funzione che la scuola ha subito: prima solo agenzia di istruzione, poi di formazione, e ora anche agenzia di promozione del benessere. Fattori di rischio per una condizione di disagio possono dipendere tuttavia anche da carenze specifiche dell’ambiente scolastico, quali a) un’eccessiva dicotomia tra vita e scuola, b) un esasperato individualismo e nella competitività nel gruppo classe, c) la scarsa conoscenza da parte dell’insegnante dei problemi esistenziali o psicologici della fascia di età degli allievi, d) i disturbi nella relazione con l’insegnante, e) l’interferenza di vissuti personali del docente nel rapporto educativo. La conseguenza può essere che il disadattamento e l’insuccesso scolastico determinino l’espulsione del soggetto dal sistema scuola, respingendolo in una condizione di marginalità,che compromette altresì l’opportunità strategica della prospettiva del lifelong learning. Anche in prospettiva più ampia, perciò, si richiede la messa in campo di strategie bottom up, affinché le politiche attive di contrasto alle dispersione siano universalistiche e di lungo periodo, capaci di produrre prassi efficaci i e standardizzabili, pur nella diversità dei contesti socio-culturali. |
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